Missione Bubanza | 9-23 ottobre 2023
Cinque i partecipanti: il sottoscritto, il dr. Alfredo Antonucci anestesista, il Dr. Vittorio Podagrosi chirurgo e la sua gentile consorte la sig.ra Rita el Mounayer, la sig.ra Francesca Pacini già caposala della Rianimazione dell’ospedale San Gerardo di Civitavecchia.
La missione, che fa seguito a quella del dr. Piero Petricca della fondazione “Andare Oltre” si è svolta in modo costruttivo e propositivo.
Emerge prepotente la necessità di mettere a punto un protocollo terapeutico di riferimento per noi medici che, in diverse missioni, ci troviamo a trattare due fra le più diffuse, devastanti patologie diffuse nella regione: osteomielite ematogena e le ulcere cutanee.
Riporto un breve racconto che ho scritto di getto al ritorno e che, partendo dal piccolo protagonista, credo dica molto sulle nostre motivazioni.
Pietro Ortensi
Jean Bosco
Si chiama Jean Bosco come il santo Fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice ma per noi è ”il Kamicaze” per via della medicazione sulla fronte che, con una certa immaginazione, ricorda la ”fascia dell’impegno (hachimaki)” indossata dei piloti giapponesi che si lanciavano, senza possibilità di scampo, contro le navi avversarie.
JB, il piccolo guerriero, ha dato una bella testata che gli ha procurato una piccola ferita (tre punti di sutura in sottile nylon), inevitabile effetto collaterale della sua prorompente, incontenibile, sorridente vitalità.
Simpatico, affettuoso (corre spesso ad abbracciarci con degli assalti improvvisi) è proprio il contrario di quei poveri, piccoli esseri che siamo abituati a vedere nella loro sofferenza esposta senza pudore e rispetto, spesso a scopo strumentale.
Bambini emaciati con la pancia gonfia di liquido ascitico (come un adulto cirrotico), dispnoici per la polmonite, abbandonati, piangenti, con il naso che cola.
Certo si tratta di immagini reali legate alla povertà, alla guerra e alle loro drammatiche conseguenze ma trovo sbagliato l’utilizzo monotono che ne viene fatto al punto di creare, in chi non conosce quella realtà, la convinzione che i bambini africani siano soprattutto o solo quelli.
Vicino all’Ospedale di Bubanza in Burundi, dove operiamo, c’è una scuola frequentata da molti giovanissimi in divisa marrone chiaro: una semplice casacca e pantaloni corti.
Dalla corsia e dalla camera operatoria si sente la cantilena piena di energia degli scolari che imparano a memoria (come, ai tempi, si faceva per apprendere le tabelline: la base della matematica elementare).
Un giorno, uscendo dall’Ospedale proprio nel momento in cui terminano le lezioni e i ragazzi escono festosi, trovandomi tra di loro, ebbi la discutibile idea di dare ad alcuni delle caramelle (sempre presenti nella tasca del camice per “consolare” i piccoli pazienti).
Dovetti scappare di corsa per sottrarmi all’assalto gioioso di giovani allegri, vivaci, simili (credo) ai loro coetanei in tutto il mondo.
Capaci di giocare con oggetti umili: un vecchio, irrecuperabile, copertone di bicicletta da far abilmente rotolare sospinto da un bastone, un pallone fatto di stracci arrotolati da prendere a calci per una partita improvvisata. Un piccolo paziente “calciava“ da solo, ridendo, un palloncino ottenuto gonfiando un guanto chirurgico.
Molti loro coetanei da noi giocano con sofisticati, costosi congegni elettronici di cui rapidamente si stancano e disinteressano: qualcosa non funziona.
Evidentemente da noi si insiste, alla ricerca del benessere e della felicità che tutti gli esseri umani legittimamente cercano a tutte le latitudini, in una direzione sbagliata, che non paga.
Missione umanitaria? Meglio chiamarla collaborazione sanitaria. Una locuzione che definisce il nostro agire in modo più equilibrato, reale, rispettoso, nella volontà di dissociarsi da ogni allusione “colonialista”.
Portiamo il nostro bagaglio di conoscenze ed esperienza destinato altrimenti, in quelli fra noi che sono pensionati, ad essere perso, rottamato (come un’auto ancora valida che può ancora fare tanti chilometri ma non circola più per le nuove regole).
Facciamo il nostro lavoro, trattiamo patologie da noi rare, presenti talvolta, solo nei libri di medicina. Una filosofia diversa nell’agire è necessaria, dovendo fare i conti con una realtà nella quale è spesso difficile seguire a lungo i pazienti e che quindi orienta verso scelte terapeutiche, per quanto possibile, risolutive.
Un modo vero ed impegnativo, quotidiano e diretto per noi medici ed infermieri provenienti da una realtà così diversa, così cambiata.