Testimonianze

Missione Bubanza9-23 ottobre 2023 

 

Cinque i partecipanti: il sottoscritto, il dr. Alfredo Antonucci anestesista, il Dr. Vittorio Podagrosi chirurgo e la sua gentile consorte la sig.ra Rita el Mounayer, la sig.ra Francesca Pacini già caposala della Rianimazione dell’ospedale San Gerardo di Civitavecchia.
La missione, che fa seguito a quella del dr. Piero Petricca della fondazione “Andare Oltre” si è svolta in modo costruttivo e propositivo.
Emerge prepotente la necessità di mettere a punto un protocollo terapeutico di riferimento per noi medici che, in diverse missioni, ci troviamo a trattare due fra le più diffuse, devastanti patologie diffuse nella regione: osteomielite ematogena e le ulcere cutanee.
Riporto un breve racconto che ho scritto di getto al ritorno e che, partendo dal piccolo protagonista, credo dica molto sulle nostre motivazioni.

 

Pietro Ortensi

 

Jean Bosco

Si chiama Jean Bosco come il santo Fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice ma per noi è ”il Kamicaze” per via della medicazione sulla fronte che, con una certa immaginazione, ricorda la ”fascia dell’impegno (hachimaki)” indossata dei piloti giapponesi  che si lanciavano, senza possibilità di scampo, contro le navi avversarie.

JB, il piccolo guerriero, ha dato una bella testata che gli ha procurato una piccola ferita (tre punti di sutura in sottile nylon), inevitabile effetto collaterale della sua prorompente, incontenibile, sorridente vitalità.

Simpatico, affettuoso (corre spesso ad abbracciarci con degli assalti improvvisi) è proprio il contrario di quei poveri, piccoli esseri che siamo abituati a vedere nella loro sofferenza esposta senza pudore e rispetto, spesso a scopo strumentale.

Bambini emaciati con la pancia gonfia di liquido ascitico (come un adulto cirrotico), dispnoici per la polmonite, abbandonati, piangenti, con il naso che cola.

Certo si tratta di immagini reali legate alla povertà, alla guerra e alle loro drammatiche conseguenze ma trovo sbagliato l’utilizzo monotono che ne viene fatto al punto di creare, in chi non conosce quella realtà, la convinzione che i bambini africani siano soprattutto o solo quelli.

Vicino all’Ospedale di Bubanza in Burundi, dove operiamo, c’è una scuola frequentata da molti giovanissimi in divisa marrone chiaro: una semplice casacca e pantaloni corti.

Dalla corsia e dalla camera operatoria si sente la cantilena piena di energia degli scolari che imparano a memoria (come, ai tempi, si faceva per apprendere le tabelline: la base della matematica elementare).

Un giorno, uscendo dall’Ospedale proprio nel momento in cui terminano le lezioni e i ragazzi escono festosi, trovandomi tra di loro, ebbi la discutibile idea di dare ad alcuni delle caramelle (sempre presenti nella tasca del camice per “consolare” i piccoli pazienti).

Dovetti scappare di corsa per sottrarmi all’assalto gioioso di giovani allegri, vivaci, simili (credo) ai loro coetanei in tutto il mondo.
Capaci di giocare con oggetti umili: un vecchio, irrecuperabile, copertone di bicicletta da far abilmente rotolare sospinto da un bastone, un pallone fatto di stracci arrotolati da prendere a calci per una partita improvvisata. Un piccolo paziente “calciava“ da solo, ridendo, un palloncino ottenuto gonfiando un guanto chirurgico.

Molti loro coetanei da noi giocano con sofisticati, costosi congegni elettronici di cui rapidamente si stancano e disinteressano: qualcosa non funziona.

Evidentemente da noi si insiste, alla ricerca del benessere e della felicità che tutti gli esseri umani legittimamente cercano a tutte le latitudini, in una direzione sbagliata, che non paga.

Missione umanitaria? Meglio chiamarla collaborazione sanitaria. Una locuzione che definisce il nostro agire in modo più equilibrato, reale, rispettoso, nella volontà di dissociarsi da ogni allusione “colonialista”.
Portiamo il nostro bagaglio di conoscenze ed esperienza destinato altrimenti, in quelli fra noi che sono pensionati, ad essere perso, rottamato (come un’auto ancora valida che può ancora fare tanti chilometri ma non circola più per le nuove regole).

Facciamo il nostro lavoro, trattiamo patologie da noi rare, presenti talvolta, solo nei libri di medicina. Una filosofia diversa nell’agire è necessaria, dovendo fare i conti con una realtà nella quale è spesso difficile seguire a lungo i pazienti e che quindi orienta verso scelte terapeutiche, per quanto possibile, risolutive.

Un modo vero ed impegnativo, quotidiano e diretto per noi medici ed infermieri provenienti da una realtà così diversa, così cambiata.

 

ROGER | febbraio 2023

 

La Morte lo aveva afferrato per la caviglia e lo aveva trascinato nel suo regno fino a metà della coscia. L’arto inferiore sin, atteggiato in modo innaturale per le numerose fratture, era nero, grandi vesciche piene di liquido. L’odore insopportabile della gangrena.
Dieci anni sono pochi per morire ma la Signora, spietata ed imparziale, non la pensa così.
Il delirio, del ragazzo morente, nella sua lingua incomprensibile e gli occhi terrorizzati, opachi e stanchi.
Un macigno, caduto chissà come, gli aveva schiacciato l’arto. Il padre, alla ricerca di cure, da tre giorni girava cercando di ricoverarlo e, finalmente, era giunto da noi.
Chi nasce e vive nelle regioni povere dell’Africa, non è mai totalmente bambino (almeno come lo intendiamo noi” Occidentali”), è in parte, uomo da subito, da quando è in grado di ragionare.
Intendiamoci: gioca, ride, corre come fanno i bambini ma guarda in faccia la realtà, non sfugge dall’inevitabile, accetta come fanno o dovrebbero gli adulti. E quelli che hanno raggiunta l’età della maturità non sono mai totalmente “grandi”: restano disponibili al gioco, alla risata spontanea e spensierata ed agiscono, talvolta, manifestamente secondo la pragmatica, ricattatoria e violenta logica infantile. È stato così che Roger, dopo l’inevitabile amputazione al terzo medio della coscia, mi chiese senza mezzi termini, se sarebbe morto.
Roger non è morto. I giorni dopo l’intervento sono stati difficili: grave compromissione dello stato generale, febbre alta. Lo medicavamo quotidianamente. Usciva pus, l’odore della gangrena era terribile. Il dolore acutissimo per i nervi esposti. Non migliorava.
Sembrava non ci fosse soluzione, e che la situazione dovesse volgere al peggio, era stato necessario riaprire tutta la ferita, poi per il consiglio di un infettivologo dall’Italia, sostituimmo l’antibiotico utilizzando la Piperacillina, ed il paziente cominciò a star meglio. Lo sguardo cambiò, più limpido, più vivace: quello giusto di un ragazzo della sua età.
Come tanti nel suo paese Roger è malnutrito pur non essendo denutrito: assume calorie a sufficienza ma manca di alimenti nobili, di proteine, quelle della carne del pesce, delle uova del formaggio del latte a causa del loro costo. Questo influisce negativamente sul processo di guarigione. È stato così che la mattina ho cominciato a portargli un panino con la frittata piena di parmigiano, un frullato degli splenditi frutti del posto: banane, papaia, mago, ananas, maracuja  ed una bottiglietta di  acqua potabile da utilizzare invece di quella dell’acquedotto fortemente inquinata da batteri o  di quella  piovana (un po’ meglio della precedente). Un “premio” al termine delle dolorose medicazioni.
Dopo la nostra partenza, Roger ha continuato ad essere assistito da Laurent fisioterapista dell’ospedale che ha provveduto alle medicazioni ed a proseguire con l’integrazione alimentare e ci ha tenuti aggiornati attraverso foto e video.
Buone notizie giungono anche da parte del prof. Falez che lo ha controllato durante l’ultima missione. Dopo oltre due mesi di ricovero, Roger finalmente torna a casa come ho saputo da Laurent.  Il moncone è guarito e potrà avere la sua protesi. Gianni Tibaldi, il tecnico ortopedico, è già pronto per costruirgliene una che gli permetterà una vita pressochè normale.

 

Pietro Ortensi

MISSIONE IN BURUNDI | 17 luglio – 15 agosto 2021

 

Dopo 3 anni di assenza torno qui, pensavo non sarebbe più stato possibile per i noti problemi relativi alla pandemia che rendono tutto più difficile.
Sono in missione in rappresentanza della FIMAC ONLUS insieme a 5 membri della Fondazione Andare Oltre ONLUS: il Dr. Piero Petricca (capo missione), la Dr.ssa Viola Colombi, il tecnico ortopedico Giovanni Battista Tibaldi, la riabilitatrice Giuliana Gaggin, la Dr.ssa Cristina Sciarra.
La peculiarità di questa missione è sicuramente il lavoro inerente la realizzazione e l’applicazione di protesi d’arto che vede in prima linea Gianni e Giuliana. Un vecchio sogno del dr. Monti che, grazie all’impegno del dr. Piero Petricca e dei valenti collaboratori che è riuscito a entusiasmare e a coinvolgere nel progetto, è diventato realtà.
In un locale messo a disposizione dall’amministrazione dell’Ospedale è stata organizzata una piccola officina ortopedica con attrezzature e materiali di base.
La domanda di protesi d’arto nel paese è grande, le amputazioni sono frequenti, praticate sicuramente con indicazione più estesa di quella che si osserva in Italia, evidentemente per la difficoltà o l’impossibilità di praticare cure conservative che richiedono frequenti incontri con i pazienti, per la mancanza di attrezzature (ad es. terapia iperbarica). Inoltre la gravità dei traumi quali fratture esposte o di patologie quali osteomieliti, ulcere croniche, sono causa del frequente ricorso alle amputazioni. Naturalmente esiste in Burundi la possibilità di ottenere una protesi ma a prezzi molto alti e, a giudicare da quello che abbiamo visto, di una qualità non eccelsa. Un’attività di protesizzazione porta con sè un “indotto chirurgico” che ci coinvolge tutti. Si tratta di mettere a punto dettagli della tecnica delle amputazioni nel confronto con le esigenze dei tecnici ortopedici che realizzano i manufatti. Inoltre è spesso richiesta la revisione chirurgica dei monconi: perone troppo lungo nell’amputazioe di gamba, moncone osseo non sufficientemente “stoffato”, neuromi, sono le cause più frequenti che la rendono necessaria.
L’Amministrazione dell’Ospedale sta approntando un nuovo reparto costituito da camere singole con servizi che, con ogni probabilità, verrà intitolato al dr. Monti.
Una lunga missione, attesa, utile, stimolante per nuovi progetti.

 

Pietro Ortensi

ESPERIENZA BURUNDI, Ospedale di Bubanza | 5-19 gennaio 2020

 

Ennesima esperienza fantastica non facile, con mille difficoltà…piena però di tanta gioia e soddisfazione! Un periodo diviso con amici, Francesco, Achille, Stefano e Anna, si questa volta anche con il prezioso contributo di una infermiera-ferrista, piena di entusiasmo, capacità e umanità. Tutti felici e saturi dei contenuti che quella terra e quella gente ti può dare, consci dei limiti dettati dalla contingenza e dalle varie situazioni locali.

Non è stata, e non voleva essere certo, una manifestazione di particolari procedure ortopediche. Sappiamo tutti che la realtà che troviamo è più un’ortopedia di guerra che deve tener conto degli immensi limiti di un contesto ospedaliero africano, peraltro che, per essere africano, è ad un buon livello.
Il gruppo davvero piacevole, a cui inizialmente si sono aggiunti anche Patrizia e Gianluca, si è entusiasticamente omogeneizzato in una costante realtà piena di sorrisi, supportata dagli indimenticabili messaggi di amore espressi soprattutto dai bambini, dagli orfanelli, dai pazienti e dai loro familiari che ripagavano la nostra opera con contenuti di gratitudine che non hanno prezzo e che nessuno potrà mai rubare ai nostri cuori.
Grazie “gruppo” siete stati davvero dei grandi.

 

Cosimo

 

PRIMA VOLTA A BUBANZA | Gennaio 2020

 

Aspettative: aiutare persone in difficoltà.
Esperienza reale: commistione di eventi ed emozioni, forse troppe per così pochi giorni, difficili da riordinare.
L’approccio è stato duro, nell’infermieria delle suore di madre Teresa di Calcutta ho imparato subito a non scandalizzarmi di fronte alla malattia, al dolore, alla consapevolezza dell’ineluttabilità di alcune situazioni.
L’ospedale di Bubanza è stata poi una scuola, scuola dove ho re-imparato (o almeno ho tentato di farlo) a stare al mio posto, a fare la mia parte, con la coscienza di aver poco da dare… Ma che quel poco sarebbe stato veramente utile.
Le strade, la scuola, l’orfanotrofio sono stati dipinti di una realtà che dopo 15 giorni ho cominciato a sentire un po’ mia.
La mia equipe, infine, è stata la mia casa e il mio esempio. Ho avuto la possibilità di poter osservare i medici a lavoro sotto un’altra prospettiva; acquistando ai miei occhi ancor più stima, rispetto, ammirazione.
In conclusione, T. I. A. “This Is Africa”, l’Africa per me rimarrà il luogo dove sofferenza e sorrisi, sudore e fatica, tensione e divertimento, introspezione e convivialità, speranza e rassegnazione, pretesa e gratitudine, ricchezza e povertà, mi hanno insegnato a riordinare le priorità esistenziali, ad essere grata, ad essere fiera della mia professione e riconoscente di aver avuto un occasione per mettermi in discussione e soprattutto al SERVIZIO.
Sicuramente dall’Africa ho ricevuto più di quanto ho donato. Grazie.
A presto

 

Anna  Tagliaferri

 

NATALE A BUBANZA | Gennaio 2019

Missione 16-30 dicembre 2018 presso l’Ospedale di Bubanza: Stefano Carbone, Fabio Barbanti, Pietro Ortensi

 

Natale a Bubanza. Abbiamo vissuto il fascino e la suggestione della più importante ricorrenza cristiana presso l’Ospedale diocesano di Bubanza. La lunga messa cantata celebrata presso la cattedrale è un’ importante occasione di socializzazione per tutti: madri elegantemente vestite, bambini allegri ed in festa, uomini composti e dignitosi e noi ormai sicuramente integrati anche se sempre oggetto di una certa divertita curiosità.
La missione è stata produttiva: sono stati effettuati 21 interventi su varie patologie ortopediche. Da segnalare il trattamento di Osteomieliti (OM). Sono stati operati nuovi casi ed è stato effettuato un 2° tempo chirurgico della stessa patologia consistente in rimozione del cemento antibiotato, in casi trattati alcuni mesi prima. La procedura si è resa necessaria per l’esposizione dello stesso. Ad essa ha fatto seguito finalmente la chiusura diretta effettuata su tessuti bonificati dal precedente trattamento. Il trattamento del’OM con la metodica del debridement, asportazione di sequestri seguito da borraggio con cemento antibiotato (gentamicina o gentamicina+vancomicina), si dimostra migliorativo rispetto alla metodica del debridement seguito da zaffo con garze imbevute di Dakin fino ad improbabile guarigione per 2°. Non è infatti necessario lo stamponamento in narcosi ed  anche in caso di esposizione del cemento (frequente nella OM della tibia) le lesioni si presentano asciutte e sane semplificando notevolmente il lavoro di chi segue i malati in nostra assenza e permettendo una successiva chiusura diretta.
Sono inoltre stati acquistati tre nuovi contenitori in acciaio inossidabile per la sterilizzazione dei ferri chirurgici. E’ stata portata una luce d’emergenza per la Camera Operatoria e materiale sterile: cerotti e set per medicazione costituiti da garze,”gnocchetti”, pinze in plastica monouso.
Abbiamo inoltre portato vestitini giocattoli per i bambini dell’orfanotrofio e delle suore di Madre Teresa di Calcutta e materiale di cancelleria per la scuola di Bubanza.
Ancora una volta si riparte per l’Italia con la voglia di tornare in Burundi a continuare il lavoro.

 

Pietro Ortensi

News from theIAPCO | May 2018

BURUNDI BASKETBALL COURT COMPLETE

 

The Bubanza Hospital, supported by FIMAC, International Foundation of Doctors for Central Africa, is a major institution dedicated to the health of the local community. IAPCO endorsed and supported FIMAC’s work at this hospital contributing to the management and care cost of hospital beds. In addition, as part of the strategy to improve healthcare and wellbeing, a basketball court was built, funded by IAPCO members, and completed in 2017.

GRETTA      

Bubanza Burundi, marzo 2016

 

Due grandi occhi che ti guardano senza esitazione, una figura minuta, fragile ma tesa e carica di quella misteriosa energia che fa di un corpo, altrimenti carne e ossa senza motivo e difesa, un essere vivo che vuole crescere, muoversi, affermarsi nel suo mondo fra difficoltà ed aggressioni. Ho incontrato Gretta la prima volta 2 anni fa in ambulatorio all’Ospedale di Bubanza (Burundi). Mi era stata portata per gli esiti di una grave ustione della gamba destra, dove l’imponente cicatrice cutanea impediva i movimenti del piede condannandola per sempre alla zoppia. E’ in quella occasione che ho saputo la sua storia: sette anni, “bambina di strada” da due, da quando era stata cacciata di casa. Era stata accusata, a seguito della diagnosi a pagamento di uno stregone specialista nella materia, di essere piena di negatività e di fatto la causa dei guai della famiglia. La ragazzina ultimamente viveva in un centro per andicappati organizzato a Kiganda, un’isolata località di campagna, dove una suora, con l’aiuto di una fisioterapista, aveva riunito una ventina di bambini che nutriva e proteggeva. Gli ospiti del “centro” non li definirei semplicemente malati ma più propriamente gente esclusa dalla società locale per le patologie e le problematiche che non permettono loro di rimanere al passo con i “normali” in un luogo dove non c’è spazio per chi non è autonomo. Il centro per andicappati dava asilo a deformi, storpi, e anche a due albini di quelli più gravi con gli occhi rossi che non possono sopportare l’esposizione al sole e, ciò che è peggio, sono continuamente a rischio di essere rapiti e uccisi. In alcuni paesi dell’ Africa sub-saariana le ossa degli albini sono considerate un potentissimo talismano e vengono vendute a prezzi astronomici nel mercato della magia nera. La suora era dunque la grande madre di quella strana famiglia che curava con coraggio affetto e furbizia ricambiata dall’evidente amore dei suoi e dai risultati: gli ospiti, curiosi, sorridenti e apparentemente sereni, erano ben nutriti e alloggiati in locali puliti e spaziosi. E’ così che un giorno la Suora tolse dalla strada Gretta portandola nel suo rifugio e, volendola far curare, la condusse da me. Operai la bambina praticando plastiche della cute e interventi sulle ossa del piede. Il post-operatorio fu molto doloroso, particolarmente le medicazioni. La piccola paziente mi afferrava le mani allontanandole dalle ferite e fui costretto a patteggiare per poterla curare: voleva lei il controllo. Questo atteggiamento che in Italia avrei giudicato un capriccio, fu considerato da me con rispetto e direi con ammirazione per la volontà di sopravvivere di quell’essere abituato a bastare a sè in chissà quali difficoltà. Difendeva la sua persona con determinazione e pensai che il suo atteggiamento avrebbe potuto essere di insegnamento a quanti buttano via la loro vita: lei combatteva per vivere. Anni prima, nella mia pratica all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, avevo escogitato un modo per medicare piccoli pazienti “difficili”: facevo fare a loro. Tolte le bende, giunti alla fase più temuta, quando si tratta di staccare le garze aderenti alla ferita, dopo abbondante irrigazione con soluzione fisiologica, sotto il mio controllo, davo le pinze al paziente e facevo fare a lui. E’ quello che feci con Gretta. Mi aspettava sorridente per la medicazione che era diventata un appuntamento fisso ogni secondo giorno: quasi un gioco. Cominciavo a sfasciarla e proseguivo fino a che subentrava lei. Finalmente le cure finirono: Gretta non zoppica più.

 

Pietro Ortensi

Hope, il bimbo “stregone” abbandonato in Nigeria salvato dalla cooperante danese

Articolo di Lorenzo Simoncelli tratto da La Stampa del 16/02/2016

Ci sono immagini che parlano da sole. A guardarle lasciano il segno. Stato di Akwa Ibom, cittadina di Uyo, sud della Nigeria. Un bambino di due anni, nudo, pelle e ossa, sporco e con la pancia gonfia perché piena di vermi reclina con le ultime forze la sua testa nel tentativo di bere un sorso d’acqua offertogli dal braccio tatuato della cooperante danese Anja Ringgren Loven. Non è la prima volta che l’Africa offre queste istantanee. Era successo in Biafra (Nigeria), in Somalia, in Darfur (Sudan). Ma nel giro di poche ore ha fatto il giro del web e ha raccolto un milione di dollari in donazioni recapitate presso l’African Children’s Aid Education and Development Foundation, una Ong danese a difesa dei bambini maltrattati e cacciati di casa perché accusati di stregoneria. Hope (speranza in inglese), così è stato chiamato il bambino al momento del ritrovamento, è stato abbandonato ad un anno di vita per le strade nigeriane perché accusato dalla sua famiglia di essere uno stregone. Non un caso isolato nel Continente, soprattutto in Africa occidentale dove la magia nera si mischia con pseudo-religioni carismatico-pentecostali. In Nigeria si stima che ogni anno siano circa 15mila i bambini abbandonati per questa ragione. In Congo si arriva a 25mila. «Hope rappresenta un miracolo della vita, è molto forte» – ha commentato Anja Ringgren Loven, la cooperante che l’ha soccorso e fondatrice della Ong. Il bambino ha vissuto otto mesi vagabondando e nutrendosi degli scarti che gli venivano lasciati per strada. Poi la corsa in ospedale e le cure per eliminare i vermi che gli stavano mangiando lo stomaco e un ciclo di trasfusioni per riportare nella norma i parametri vitali. Dopo due settimane di cura Hope è tornato a sorridere e presto raggiungerà gli altri bambini della Ong anche loro recuperati dopo esser stati vittime di abbandono e maltrattamenti. Esorcismi, prigionia, fame forzata, pozioni “magiche” sono alcune delle costrizioni a cui vanno incontro i bambini accusati di stregoneria.

          

Foto: African Children’s Aid Education and Development Foundation

PER UN PEZZO DI PANE

Bubanza Burundi 16 maggio 2015

 

C’è un bell’albero di limoni subito fuori dalla casa dove noi medici alloggiamo a pochi passi dall’ospedale. Quel giorno avevo deciso di raccoglierne alcuni da spremere ed aggiungere il succo all’insipida acqua sterilizzata con la bollitura che usiamo da bere per migliorarne così il gusto.

Provo a scuotere l’albero, poi con un lungo ramo batto sui frutti per farli cadere: inutilmente. Compare all’improvviso un uomo, probabilmente uno degli operai che stanno costruendo il muro intorno all’ospedale come voluto dalla Direttrice per ragioni di sicurezza e decoro. E’ un individuo molto magro, di bassa statura, con la pelle e gli stracci dello stesso colore della terra scura accumulata in mucchi dallo scavo delle fondamenta. Vede i miei sforzi e, rivolgendosi a me in una lingua incomprensibile che da per scontato io debba capire, indica l’albero poi, con lentezza e qualche difficoltà, si arrampica. Strappa i limoni e li getta verso di me che col naso all’aria seguo dal basso l’operazione. Sette bei limoni della qualità con la buccia spessa, profumati ma non come quelli cui siamo abituati in Italia forse perché, come ho sentito dire, la rapida crescita della pianta a questa latitudine sotto la tremenda spinta vitale che deriva dal sole e dall’acqua, non permette loro quell’arricchimento di aromi e profumi che richiede tempo e stagioni.

Raccolgo i limoni nella camicia sfilata dalla cinta tenuta per i pizzi ed usata come un sacco. Sto per allontanarmi quando l’uomo rivolgendosi a me pronuncia una misteriosa parola: “umukatie”, la ripete indicando lo stomaco evidentemente vuoto sotto il torace di cui si contano le coste. Entro in casa e chiedo il significato della parola a Pontienne (la persona ormai di famiglia che da tanti anni si occupa di noi durante le missioni), lui dapprima non capisce poi ripete la parola correggendone la pronuncia e spiega: umukatie vuol dire pane. Prendo in cucina un pezzo di pane, mi sembra poco come ricompensa, quasi mi vergogno, è dolce, fatto con una farina bianca molto raffinata e non sfigurerebbe al tavolo di un raffinato ristorante romano, esco lo do all’uomo che soddisfatto si allontana con gesti di ringraziamento.

Comincio a capire, mi vengono in mente riferimenti evangelici e poi quell’espressione “per un pezzo di pane” comunemente usata a significare “in cambio di poco, a basso prezzo”. Ma evidentemente il valore del gesto concreto in un contesto così diverso può cambiarne radicalmente il significato. Non credo che in futuro userò questa espressione con superficialità e senza riflettere.

 

Pietro Ortensi


Articolo tratto da www.iwacu-burundi.com ORTHOPAEDICS: GOOD SAMARITANS FROM ROME
di Joanna Nganda


In Burundi due ortopedici italiani aiutano l’Africa a tornare di nuovo a CAMMINARE. I medici romani provano a ridare un futuro ai piccoli di quel paese. Intervengono su patologie endemiche e sui traumi lasciati dalla guerra. Hanno costruito un ospedale. Portano a Roma i casi più gravi, operano e assistono. Grazie a due fondazioni e alla generosità dei donatori.
di Mario Pappagallo


Solidarietà. La straordinaria esperienza di un ortopedico volontario in Burundi. CURO L’AFRICA E LEI CURA ME “E’ un impegno massacrante, ma alleviare il dolore di chi non ha nulla è più rigenerante di una beauty farm”, racconta Francesco Falez, Primario e Ricercatore di fama mondiale.
di Rita Cenni

Perché in Africa

Che succede ad un traumatizzato al quale non venga “ridotta” una grave frattura della gamba lasciando esposto il moncone osseo che ha perforato la cute? Ad un ustionato con una lesione della mano non trattata che distrugge la carne fino a mostrare i tendini e lo scheletro? Quanto  resterà indietro una persona adulta che vive in pieno terzo mondo per la sua grave zoppia dovuta ad un “piede torto” non corretto? Consideriamo che la sua deformità congenita avrebbe potuto essere curata da bambino forse, come in molti casi, anche senza  chirurgia. Per un medico che eserciti in Italia è possibile solo immaginare le risposte, magari con l’ausilio delle immagini di qualche vecchio testo. In Burundi è possibile trovare le risposte. Lì si può vedere l’evoluzione naturale di un trauma, di una malattia, di una malformazione lasciati senza il trattamento che la medicina può offrire. Nei nostri Paesi è assicurata l’assistenza di base. Numerosi medici e presidi sanitari sostengono un sistema che comunque non lascia i pazienti senza cure. Nei Paesi dove operiamo, la presenza di un medico, di un infermiere e dell’ attrezzatura necessaria, è cosa rara e fa la differenza anche fra la vita e la morte. Da queste considerazioni è facile immaginare l’utilità della nostra presenza in Burundi e la grande soddisfazione che traiamo dal nostro lavoro.

 

Dr. Pietro Ortensi

Ho iniziato ad andare in Burundi sotto la guida/compagnia del Prof. Monti circa due anni e mezzo fa, quando mio padre mi suggerì di fare questa esperienza. Da allora, ci sono andato quattro volte, circa due volte l’anno, e puntualmente tra un mese circa farò un’altra missione. Non riesco a stare lontano da quella terra, da quella gente, da quella totale diversità rispetto al mondo in cui viviamo noi oggi, per più di sei mesi. Certamente, quando vado lì e passo tre settimane praticamente fuori dal mondo (questa è più o meno la durata di ogni missione) non vedo l’ora di tornare a casa, perché, comunque, stare lontano dalle proprie cose e persone care non è facile. Ma invariabilmente, dopo qualche mese, non vedo l’ora di riprendere quello scomodissimo aereo della Ethiopian Airlines e buttarmi con anima e cuore in ciò che mi piace fare, senza secondi fini… il medico.

 

 Dr. Stefano Carbone